Per considerare un qualsiasi tipo di intervento in una zona archeologica è
giusto riflettere su come dovesse apparire la struttura nel suo stato originale, di
come sia andata in decadenza e valutarne lo stato attuale. Si deve tener conto
che le opere pubbliche dell'antico Impero Romano sono impianti che tendono
alla monumentalità. In questa situazione, riflettendo sulla Albingaunum di 2000
anni fa, si deve osservare il confronto tra quello che era e quello che è.
L'impatto che doveva avere la mole dell'anfiteatro con il contesto, situato in una
posizione elevata e visibile in un raggio di 270°. La relazione volumetrica che
doveva avere con il contesto e con l'antica città romana era di notevole
impatto a differenza di quello che appare oggi. Un insula32 romana per legge
non poteva essere alta più di 18 metri, questo per motivi di sicurezza
strutturale. Considerando il centro di Albingaunum densamente popolato33,
possiamo pensare ad un'edilizia formata da botteghe al piano terreno e 2-3
piani soprastanti; leggermente inferiore all'altezza attuale del centro storico. Nel
momento in cui si va a ipotizzare un tipo di realizzazione qualsiasi in questo
ambito, è ovvio che si avrà un impatto notevole, che può essere discusso o
meno, ma non sarà mai dissimile per rapporti e proporzioni con quello che
aveva 2000 anni fa.
Progettare in luoghi come questo comporta scegliere tra due metodologie diametralmente opposte, inconciliabili fra loro. Si può decidere di preservare le aree storiche e conservare intatte le forme architettoniche tramandateci dal assato prevedendo, per le parti mancanti o per l’esecuzione di integrazioni, al massimo la ricostruzione in stile. Oppure se si è in presenza di qualità storiche consolidate, l’affermazione, attraverso il progetto del nuovo, della sua assoluta estraneità dal contesto, prendendo atto dell’esistenza di mondi inconciliabili.
Naturalmente tra i due estremi, esiste un percorso intermedio dove c'è
consapevolezza tale che trasformi il reperto, non in una iattura da negare, o
peggio ancora da spolverare e ricoprire, quanto una straordinaria risorsa che
aggiunge al progetto una nuova responsabilità, un nuovo ruolo ed una diversa
dimensione narrativa.
Sarebbe sbagliato considerare lo scavo archeologico dell'anfiteatro senza il suo
contesto, la Via Iulia Augusta, la necropoli, il Pilone Romano, il Centro Storico,
l'abbazia e la chiesa di San Martino...
Progettare in luoghi come questo comporta scegliere tra due metodologie diametralmente opposte, inconciliabili fra loro. Si può decidere di preservare le aree storiche e conservare intatte le forme architettoniche tramandateci dal assato prevedendo, per le parti mancanti o per l’esecuzione di integrazioni, al massimo la ricostruzione in stile. Oppure se si è in presenza di qualità storiche consolidate, l’affermazione, attraverso il progetto del nuovo, della sua assoluta estraneità dal contesto, prendendo atto dell’esistenza di mondi inconciliabili.
In entrambi i casi ci si astiene dall’intervenire sul sistema di relazioni, equilibri,
movimenti che ha determinato il formarsi della città, per affidarsi ad
atteggiamenti mimetici rassicuranti o alla responsabilità limitata da nuovi oggetti
architettonici. Si giudica implicitamente impossibile rinnovare e accrescere la
città e “si finisce con il trasformare centri a lungo vitali in necropoli tirate a
lucido, illustrate da cadaveri architettonici mummificati o da nuovi contenitori alla
moda”34, separando i contenuti da ogni rapporto con il contesto che li ha
prodotti.
Nel nostro caso la sovrapposizione della struttura nuova con una porzione dei resti romani, l’incontro con la storia non è solo cosa frequente ma addirittura inevitabile. Il progetto di architettura viene visto quindi non come sviluppo di un'entità che si trasforma e cresce su se stessa ma diviene il segno della dissoluzione di un patrimonio archeologico sepolto e conservato sotto terra.
L’interpretazione del resto archeologico come monumento è comune in Italia dove, l’atteggiamento delle forme istituzionali nei confronti della gestione, valorizzazione e fruizione del patrimonio storico e culturale, sembra risolversi unicamente nell’”estraniazione” del bene archeologico, isolandolo dal proprio contesto e mantenendolo incomprensibile, incapace di esplicare il senso delle relazioni che intercorrevano con gli antichi percorsi o con gli attuali luoghi urbani35, portando la memoria a non condizionare le regole della progettazione.
Nel nostro caso la sovrapposizione della struttura nuova con una porzione dei resti romani, l’incontro con la storia non è solo cosa frequente ma addirittura inevitabile. Il progetto di architettura viene visto quindi non come sviluppo di un'entità che si trasforma e cresce su se stessa ma diviene il segno della dissoluzione di un patrimonio archeologico sepolto e conservato sotto terra.
L’interpretazione del resto archeologico come monumento è comune in Italia dove, l’atteggiamento delle forme istituzionali nei confronti della gestione, valorizzazione e fruizione del patrimonio storico e culturale, sembra risolversi unicamente nell’”estraniazione” del bene archeologico, isolandolo dal proprio contesto e mantenendolo incomprensibile, incapace di esplicare il senso delle relazioni che intercorrevano con gli antichi percorsi o con gli attuali luoghi urbani35, portando la memoria a non condizionare le regole della progettazione.
La scelta consapevole che qui viene fatta è quello di progettare un ambiente
che riconosca il passato ma senza avere un carattere definitivo. La reversibilità
regna sovrana dove si incontra un resto romano.
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